Inquietudine teorica e strategia del gigioneggio

4 aprile 2008

Se studi architettura…

…probably you feel like this

io mi ritrovo molto nella vecchia barbagianni

19 gennaio 2008

1/19, Il giorno di Jan Palach e degli altri eroi della libertà

PREFAZIONE

La prima volta che ho letto queste paginette avrò avuto 10 anni, e non le ho capite. […] Non ho apprezzato questo racconto, nemmeno consapevole di non aver capito qualcosa. Le ho rilette, e stavolta capite, alcuni anni dopo, e da quando è successo so che questo brano è la cosa più bella che si possa disegnare con l’alfabeto.

ALCUNI MECCANISMI DELLA MIA BELLISSIMA ANIMA

Io ho sempre pensato che non si debba mai condividere con gli altri ciò che si ritiene bello e che si ama molto, perché le loro reazioni possono essere solo deludenti in relazione a qualcosa di cui si ha un concetto così alto. È nel mio carattere essere debole a volte, e, spinto dall’umana speranza di trovare approvazione e unità di vedute su qualcosa di cui ho la massima considerazione, mi può capitare di rompere questa infallibile, e infallita (che neologismo eh), regola morale, pentendomene subito dopo.
Stavolta è diverso, so già cosa aspettarmi dalle reazioni altrui (il mio reazionometro ha una gamma che và dalla “indignata disapprovazione”, che è la più soddisfacente, alla “annoiata, gloriesca, indifferenza”, che è la più comune), ma voglio comunque sacrificare la morbosa segretezza di qualcosa a cui tengo per renderla pubblica. Oggi è un giorno buono e le ragioni che mi spingono a sputtanarmi così sono buone anch’esse (“anch’esse” è bellissimo).

AVVERTENZE IMPORTANTISSIME

Negli eventuali commenti potete scrivere quello che volete (eh sì mi sento tollerante) riguardo al maggiore, minore o assente gradimento del suddetto racconto, potete scrivere che è noioso e lungo e non siete riusciti a leggerne più di qualche riga o che è scritto male, e potete scrivere che le mie prefazioni sono irritanti e incomprensibili (e questa è una grande verità), oltre che inutilmente contorte.
Ma non potete scrivere nulla riguardo all’autore del brano, la vicenda a cui si ispira, i personaggi, e vostre o altrui deduzioni o teorie che possano in qualche modo svelare il finale o rovinare il senso di questo scritto a eventuali lettori che non lo conoscessero. Se un eventuale commento, anche involontariamente, non obbedisse a queste regole lo cancellerò, abusando del potere che la estronza mi ha concesso (cosa di cui comunque si sta amaramente pentendo).

 

IL BAR DI UNA STAZIONE QUALUNQUE

Il bar della stazione della città di B. ronzava di gente. Erano i giorni di punta dell’esodo vacanziero. Truppe valigiate e zainate riempivano e svuotavano treni, attendevano stremate dal caldo, si accampavano nelle combinazioni più teatrali, dal presepe al bivacco militare. E soprattutto si accalcavano alle casse del bar, inseguendo glaciali lattine e rugiadose bottiglie che, una volta conquistate, reggevano alte sulla testa come ostensori, o cullavano maternamente tra le braccia. Soldati in divisa guatavano nordiche rosee, chitarre di alternativi sfioravano teleobiettivi di samurai, mamme monumentali controllavano diserzioni di prole, babbi carichi come somari tentavano, con l’ultimo dito libero, di tenere al guinzaglio un botolo scatenato dagli afrori. Pazienti ferrovieri fornivano indicazioni a suor-sergentesse di brigate rosariate mentre branchi di giovanetti si spostavano compatti, e le sponsorizzazioni delle magliette si confondevano con quelle degli zaini, tanto da farli sembrare un enorme polipoide pronto a scivolare dentro al treno da un unico finestrino.
Quattro africani, ognuno con boutique al seguito, cercavano di piazzare mercanzia con alterna fortuna, un quinto riposava sdraiato tra collane, giraffe e occhiali neri, come il sultano di una reggia in liquidazione.
Due vecchie vestite di nero, in transito dalle isole, tagliavano fette di provola per una nidiata di marmocchi in mutande. Un uomo obeso, sudato, beveva birra a collo e mostrava coraggiosamente al mondo due cosciotti da tirannosauro sboccianti da shorts fucsia con la scritta “SportLine”. Un barbone camminava reggendo nella mano destra una busta con la casa e nella sinistra il guardaroba.
Un’antilope bionda, bellissima, ambrata, avanzò tra i tavoli accendendo i sogni di tutti i militari presenti, ma ahimè, poco dopo la affiancò un Thor in canottiera traforata a riccioli biondi che educatamente si mise in fila troneggiando sopra brevilinei calabresi e sbarbine romagnole già rombanti in pole position per la discoteca.
Si attendeva il 9,06 in ritardo, il 9,42 speciale, il 10,00 seconda classe settori B e C. Tutti erano partenzapér o arrivodà.
Solo due clienti del bar sembravano indifferenti alla generale eccitazione, come separati dalla folla da un velo invisibile.
Uno era un vecchio occhiceruleo, con un vetusto completo kaki, bastoncino di canna e sandali con calzini di lana. L’altro un uomo tozzo coi capelli corti, occhiali a specchio, e un completo blu di una certa eleganza. Erano seduti vicino all’entrata del bar. Il vecchio, che chiameremo il Parlante, sorseggiava una birra. L’uomo con gli occhiali neri, che chiameremo il Silenzioso, beveva svogliatamente un caffè freddo.
Chiaramente il Parlante aveva voglia di attaccare discorso e il Silenzioso no: ma in queste situazioni un Parlante è sempre in nettissimo vantaggio. Basta che parli. E così fu.
— Certo, ce n’è di gente oggi — esordì.
— Abbastanza — grugnì il Silenzioso.
— A me non dispiace, — proseguì il Parlante, per niente scoraggiato dal preventivato mugugno — voglio dire, una stazione strapiena può dare a i nervi, ma una stazione vuota è triste. E poi, non so come spiegarle, questa gente che parte per le vacanze mi sembra più allegra, frenetica, ma piena di buonumore, non trova?
— Se lo dice lei — rispose il Silenzioso dietro la cortina degli occhiali.
— Io non parto — disse il Parlante, ormai lanciato. — Quest’estate resto in città, mia moglie ha dei problemi al cuore, e i medici ci hanno sconsigliato di muoverci, allora mi piace venire qua perché nel mio quartiere c’è un gran mortorio, sembra tornato il coprifuoco. Qua ci sono tante facce, dei bei giovani, delle belle giovanotte abbronzate. E la gente sembra migliore, ride di più, si chiama a alta voce, scherza. Forse perché stanno partendo, e sperano di trovare qualcosa di buono là dove vanno. Si parte per questo, no?
— C’è anche qualcuno che sta già tornando — disse il Silenzioso.
— Sì, ritornano e allora osservo quelle belle scene che mi piacciono tanto, uno scende dal vagone e guarda in fondo al binario, affretta il passo e poi riconosce la persona che lo aspetta, e le corre incontro. Si vedono degli abbracci che non si vedono tutti i giorni. E certi baci appassionati! E’ un momento che ci si vuole bene, magari un’ora dopo si litiga ed è già tornato tutto normale. E si hanno tante cose da raccontare; magari in vacanza non ti è successo granché, ma raccontandolo tutto si colora, si trasfigura. Anche senza volere, la vacanza diventa più bella di come è stata: le cose brutte diventano quasi comiche, le cose belle diventano uniche. Non trova?
— Non lo so. Non racconto mai quello che mi succede in viaggio…
— Ce n’è anche di quelli come lei, che si tengono tutto dentro, come un bel segreto, da coltivare durante l’inverno, come una pianta che si compra in vacanza e si mette sul balcone. E magari tornando si accorgono che gli mancava la loro vecchia città, che sentivano un po’ di nostalgia. Il loro quartiere sembra meno noioso del solito. Fanno progetti, si dicono: «no, questo inverno non andrà come quello scorso». Magari questi progetti si spengono in fretta, ma che importa? E quelli che partono? Si stancano più a organizzare la partenza che a lavorare una settimana, ma sembrano contenti. Perché sperano che là, nel posto dove arriveranno, ci sarà qualcosa di nuovo, che cambierà il loro destino. O magari gli basta qualche foto da guardare nelle sere d’inverno. Che ne pensa?
— Penso, — disse il Silenzioso con un sorriso sarcastico — che lei dovrebbe andarci piano con quella birra.
— Parla come mia moglie, — sospirò il vecchio — ma vede, dal momento che non parto, non mi va di stare chiuso in casa a mugugnare da solo, o guardare alla televisione gli ingorghi sulle autostrade, o invidiare quelli che sono partiti. Vengo qui e faccio anch’io parte della festa, immagino dei posti al mare o in montagna, o in un’altra città, dove ci potrebbe essere qualcosa di speciale per me. Ecco, guardi quella ragazza: c’ha scritto sulla schiena “Ocean Beach”. Se la guardo, già sento aria di mare, e vedo le palme.
— Guardi che “Ocean Beach” è la marca dello zaino. E non sente che qua dentro manca l’aria per la ressa?
— Ha ragione — disse il Parlante. — Sì, anche a me spesso la folla dà fastidio. Divento nervoso nelle file, soffoco quando sono circondato dal traffico, mi vien da dar di matto, vorrei roteare il bastone e gridare via, via, lasciatemi un po’ di spazio, due metri, tre metri almeno. E poi ci sono i rumori che ti svegliano la notte, i motorini, le facce ostili alla finestra, il nervosismo di quelli che credono di essere gli unici a patire il caldo. Sì, qualche volta mi arrabbio, ma poi mi chiedo: vivere insieme in fondo non è questo? Difendere il proprio diritto ad avere un po’ di spazio, aria, silenzio, rispetto, speranza, ma senza aver paura di ciò che ci circonda, non vedere nemici dappertutto, invasori, gente che ti passa davanti. Lei, se per strada qualcuno la urta, cosa pensa? Che l’ha fatto apposta?
— Ma che razza di domande, — si spazientì il Silenzioso — e poi di che rispetto parla, non vede quanti barboni, quante persone inutili, miserabili, disperate, ci sono qua dentro?
— Forse ha ragione. Ma non li guardi nel momento in cui sono feriti, chini a terra, vinti. Li guardi nel momento che si tirano su, che sono allegri, che cercano di respirare. Guardi quel nero: carico come una bestia, va a vendere chissà cosa in chissà quale spiaggia, e canta. E guardi come si gode la sigaretta quella vecchiaccia. E quella coppia di ragazzi, beh, non sono proprio dei modelli di eleganza, ma vede come sono abbarbicati insieme a dormire, lì per terra…
— Sì, capisco cosa pensa — proseguì il vecchio. — Che lei è diverso, che non è affar suo occuparsene. Eppure sono sicuro che anche lei, almeno un giorno della sua vita, era ridotto da far pena. Ma negli ultimi tempi, in questo paese, si fa più in fretta a buttare via la gente. Si è accorciata la data di scadenza come lo yogurt. Vecchio, alé, scaduto. Drogato, alé, non dura un mese. Disoccupato, alé, tanto finisce male. Per carità non vorrei buttarla in politica. Ma di questo passo facciamo cittadini solo quelli che tengono il ritmo del gruppo, non so se lei si intende di ciclismo, o anche peggio, quelli che marciano tutti al passo, o quelli che c’hanno i soldi da farsi portare in spalla.
— Calma, calma, — disse il Silenzioso — altroché politica, lei mi sta facendo un comizio!
— Ha ragione, sono un chiacchierone. Ma ogni giorno vedo la gente diventare cattiva per niente, odiare quella che non conosce, ripetere i tormentoni della televisione invece di dire quello che c’ha dentro. Allora mi arrabbio. E a me, glielo dico subito, se la borsa sale o scende non me ne frega niente. Io vedo se sale o scende l’avidità e la cattiveria. E sa cosa le dico? Ma che miseria, che crisi! Noi siamo un paese che potrebbe esportarla l’allegria, come le arance, aiutare gli altri paesi, potremmo essere gente che regala la speranza, invece di aver paura di tutto e montare le fotoelettriche intorno alla casa.
— Ma che discorsi sconnessi. Ci vorrà pure un po’ di ordine — sbuffò il Silenzioso.
— Ha ragione ha ragione, sto esagerando. Volevo solo spiegarle perché passo il mio tempo qui. Perché penso che bisognerebbe sempre sentirsi come se si partisse il giorno dopo, o come se si fosse appena tornati. Tutto diventa più prezioso; quello che si lascia e quello che si trova. Il dolore è facile da ascoltare, quello ti arriva addosso, urla, ha una voce terribile, è sempre lui a raggiungerti. La speranza è un vocina sottile, bisogna andarla a cercare da dove viene, guardar sotto il letto per poterla ascoltare. O venire in una stazione.
— I suoi sono discorsi da pomeriggio estivo, — disse il Silenzioso consultando l’orologio, — ma mandare avanti un paese è molto più difficile.
— Ne convengo — disse il vecchio sorridendo. — Mi scusi se le ho attaccato un bottone, vedo che lei sta partendo. Beh, spero che vada in un bel posto e che passi una bella vacanza.
— Grazie — disse l’uomo e si allontanò, fendendo deciso la calca.
— E’ difficile parlare con un uomo che ha gli occhiali neri, — pensò il vecchio — non si vede mai cosa pensa davvero. Forse l’ho annoiato. O forse il mio discorso lo ha toccato. Sembra che a certuni parlar di speranza metta paura. Eppure a me questa gente che parte e torna mette allegria. Sì, saranno avidi, nervosi, pigri, disordinati, cialtroni, si spingono e si rubano il posto ma hanno diritto di provarci un’altra volta, hanno diritto di cercarsi un posto migliore, o di tornare a casa e ricominciare. Sì, ricominciare almeno una volta prima di rassegnarsi. Non è molto, ma è qualcosa.
Una famiglia gli passò davanti di corsa, il treno stava arrivando. Un bambino correva goffo, trascinando un triciclo rumoroso. Una bimba teneva la mano sul cappello di paglia per non perderlo. Il padre aveva un gilè da pescatore a trenta tasche e naturalmente non trovava più il biglietto. La madre lo perquisiva rimproverandolo. Il barbone, guardando la scena; rise. Il nero addormentato si svegliò sbadigliando come un leone.
Il vecchio aveva finito la birra, si asciugò la fronte e uscì, un po’ barcollante, sulla pensilina del primo binario. Venendo dall’aria condizionata del bar, fu come tuffarsi nel brodo. Vide il Silenzioso che si avviava verso l’uscita. Gli sembrò che non avesse più la valigia, ma non ci fece troppo caso. Era troppo incantato a guardare la gente. Gli sembrava di aver scoperto qualcosa, qualcosa di importante che gli sarebbe servito per quello che gli restava da vivere.
«Se avessi con me un quaderno ce lo scriverei sopra» pensò.
«Oggi, stazione di Bologna, due agosto di un anno vicino al duemila, ore dieci e venti del mattino, tutti sono allegri perché partono, e faccio finta di partire anch’io».

7 dicembre 2007

Lupi e pecore a confronto.

Qualche giorno fa Luca scriveva dell’empatia delle pecore. Oggi scopriamo che in natura esiste anche il perdono, in particolare nei lupi. Ebbene, le pecore soffriranno per le pene delle loro compagne, ma i lupi sono anche capaci di perdonare. In realtà, quale che sia il torto subito (e non saprei dire cosa sia un torto per un lupo), la riconciliazione è necessaria per la sopravvivenza del branco. In pratica qualunque tipo di incomprensione o di scontro fra membri dello stesso gruppo potrebbe mettere in pericolo la vita di tutti. Fra i lupi ,quindi, perdonare non è solo nobile, ma fondamentale. Fa parte della loro natura. Immaginiamo un giorno lupesco su un monte, diciamo il monte Ciccia. Un lupo, chiamiamolo Evaristo, ruba la preda appena uccisa da un altro, che sarà Giuseppe. Giuseppe, comprensibilmente incazzato, va da Evaristo e lo azzanna. Comincia una piccola rissa. Il branco si riunisce attorno ai due litiganti, chi ulula, chi abbaia, chi aizza Giuseppe, chi tifa per il sangue. Poi arriva il capo , nero perchè ha già avuto una brutta giornata, e fa un casino, convincendo i due a smettere di picchiarsi. La cosa, sanno bene i due lupi, deve finire lì.Il modo per festeggiare la forzata riappacificazione arriva presto, con un bell’assalto notturno ad un gregge di pecore, che nel frattempo sono troppo concentrate a guardarsi in faccia e darsi pacche sulle spalle per accorgersi del pericolo. I lupi, essendo magnanimi, le fanno fuori tutte per non far soffrire le eventuali sopravvissute. E al mattino, sul monte Ciccia, nessuna pecora triste e tanti lupi amiconi e panzuti. Equilibrio perfetto.

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